[Questa è la settima lezione del Corso Base di Sceneggiatura: se hai perso l'introduzione al Corso Base di Scrittura e Sceneggiatura, ti consiglio caldamente di leggerla!]
L’eroe dai mille volti. Il viaggio dell’eroe. Il monomito. Mai sentito parlare di questi concetti? Sintetizzando molto la questione, studi comparativi tra i miti del mondo portarono poco dopo la Seconda Guerra Mondiale alla pubblicazione di un volume intitolato L’Eroe dai Mille Volti, di Joseph Campbell.
Quel volume si inserì come una pietra miliare negli studi di mitologia comparativa, mostrando come Mosè ed Ercole avessero ben più punti in comune di quanto sembrasse e che, in soldoni, i grandi miti (magari non tutti, ma quasi) nati in diverse società nel corso dei millenni sono riconducibili a un singolo grande modello generale.
Come se il cervello umano fosse programmato per progettare così le storie e per favorirle, tant’è che nella competizione durata millenni proprio queste storie tutte molto simili a livello di architettura sono arrivate fino a noi e non quelle completamente diverse che troppo spesso affollano film zoppicanti e libri insipidi. Naturalmente queste teorie ispirarono in poco tempo anche chi si occupava di sceneggiature.
Il monomito aiuta a decidere quali elementi generali servono nella storia: aiuti esterni, ricompense, inviti a desistere, luoghi “alieni” da conoscere, sconfitte… uno schema che all’inizio può sembrare molto utile, ma che in realtà è solo una check list di elementi che di norma, in diverse combinazioni e quantità, si trovano in tutte le buone storie. Semplicemente perché diversi elementi descritti nel monomito sono così generici che è pressoché impossibile evitarli in una qualche interpretazione.
Pensare con il monomito è insito nel cervello umano e quando lo si conosce a fondo è normale stupirsi che si stavano già progettando storie che lo seguivano, almeno in parte… ma accadeva in modo inconsapevole e qui sta tutta la questione: sapere esattamente cosa si sta facendo aiuta a ottimizzare il lavoro e a dare quel tocco in più alle proprie storie, trovando ciò che si voleva aggiungere (es: il rifiuto iniziale dell’Eroe) e che proprio non veniva in mente senza conoscere la teoria sottostante.
Se l’evoluzione ci ha portati ad avere un cervello che predilige simili architetture, perché non approfittarne e scrivere apposta storie in questo modo?
George Lucas corresse diversi elementi del suo Star Wars per farlo aderire meglio al monomito, quando scoprì che cos’era… e il risultato non è stato male, con il successo che tutti abbiamo visto, anche se ovviamente fu solo un aspetto che aiutò questo successo (e probabilmente nemmeno uno dei più rilevanti).
Con l’idea di aderire solidamente al monomito venne progettato il primo Matrix. E tanti altri film e romanzi seguirono il modello del monomito, visto il boom che ebbe tra scrittori e sceneggiatori.
Alcune storie che lo applicano inconsciamente sono Il Vecchio e il Mare di Hemingway (il mare come Bosco Magico, la perdita della Virilità rappresentata dal non riuscire più a pescare nulla e la sua riconquista grazie alla carcassa divorata dai pesci riportata al villaggio come Trofeo e bla bla bla) o la serie di James Bond in cui il personaggio di Q, tanto per citare un elemento facile da capire, racchiude in sé le figure mitiche dell’Armaiolo (fornisce armi comuni) e dell’Aiuto Magico (fornisce gadget incredibili).
Problema: il modello mitico del monomito funziona con quasi ogni sorta di storia (thriller, fantasy, fantascienza, drammatica, commedia romantica ecc.), ma si presta meno bene alla tragedia. Per antieroi e tragedie consiglio di operare adottando l’architettura successiva, a triplice conflitto, descritta dalla prossima lezione.
Il monomito non è altro che un modo un po’ goffo, inquinato dal linguaggio mitico, di parlare del modello aristotelico (che vedremo dalla prossima lezione), con l’aggravante di direzionare meno bene al realizzare anche tragedie.
All’inizio il monomito può impressionare molto e sembrare una manna dal cielo, ma poi si sgonfia quando lo si ricolloca nella comprensione generale della narrativa. Per esempio quando si nota che più o meno tante belle storie ci entrano senza farlo apposta… e tante storie merdose possono anche aderirci perfettamente.
Il monomito non basta da solo come bagaglio tecnico per uno sceneggiatore e non aiuta granché bene nemmeno nella fase più creativa di immaginare storie da zero.
Alcuni lo troveranno all’inizio limitante (reazione opposta a “la manna dal cielo!”), anche se in realtà non lo è granché. Come già detto prima, se lo si applica a fondo è semplicemente un modo scemotto, riempito di linguaggio finto-mitico che ostacola la comprensione, di parlare del normale modello di storie con difetto fatale e arco di trasformazione (il cosiddetto modello aristotelico, o restaurativo, che il cinema usa da decenni e che vedrai bene tra poco).
Per questo dico che non mi appassiona molto: è meglio studiare il modello aristotelico nella sua purezza, senza distrazioni linguistiche che possano rovinare il nostro apprendimento. Ci si confonde le idee senza ottenere alcun beneficio, solo problemi.
L’opera che consiglio per introdursi al monomito e vedere un’applicazione moderna spiegata passo per passo, con un thriller che ha per protagonista una giornalista a Las Vegas (qualcosa di molto lontano dalle atmosfere fantasy), è The Key – How to Write Damn Good Fiction Using the Power of Myth di James n. Frey.
Oppure, ancora meglio, Viaggio del Bosco Narrativo di John Yorke, dove si discute anche di come il modello in tre atti (che vedrai tra poco) sia perfettamente sovrapponibile al modello in cinque atti.
Il modello in cinque atti pone semplicemente una maggiore attenzione formale alla suddivisione del vasto secondo atto, tant’è che le opere di Shakesperare si possono ugualmente analizzare come se avessero tre o cinque atti. Ok, siamo entrando un po’ troppo nelle finezze: ti basti sapere che cinque atti e tre atti sono praticamente la stessa cosa, e che ragionare con tre atti è più “universale” anche per comunicare con altri esperti di sceneggiature.
Tornando ai libri, sconsiglio la lettura de L’Eroe dai Mille Volti di Campbell se non per cultura generale, o per chi è appassionato di mitologie (come me: io l’ho letto volentieri). Se volete un testo che vi aiuti a usare meglio i concetti del viaggio dell’eroe in una vostra storia, i due titoli citati prima sono più che adeguati. Soprattutto quello di Yorke, davvero ben fatto e intelligente. Una delle migliori letture degli ultimi anni.
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