Ho visto Dunkirk e mi è piaciuto molto, anche se non mi ha lasciato la voglia di rivederlo. È il tipo di film che preferisco, con personaggio credibili che fanno cose eroiche ma possibili invece di eroi esagerati che fanno cose palesemente da film e basta. Avevo un po’ di timori per via del problema di fondo di questo genere di film storici che cerca di presentare prima di tutto l’evento, lo scenario, invece di costruire una storia tradizionale sfruttando la base storica.
Voglio concentrarmi su alcuni aspetti narrativi. Non parleremo della regia o delle scelte visive, perché non è il mio campo. Non parleremo degli eventuali anacronismi ed errori, ma se proprio volete vi lascio un link a tema. Non parleremo del fatto che la spiaggia di Dunkerque qui rappresentata sia molto meno caotica di quella reale, per cui il regista Nolan ha preferito rappresentarla più sobria e assieme opprimente, con meno soldati di quelli reali, meno aerei e molte meno esplosioni. La realtà storica era più casinista e hollywoodiana del film, e Nolan non voleva fare qualcosa che ricordasse i soliti film di guerra americani.
Non parleremo dell’uso dei suoni per costruire l’atmosfera, del fatto che sia un film che non ha paura di ridurre al minimo le musiche e non cerca di riempire ogni momento senza battute con delle melodie invasive: ciò che vediamo e i suoni ambientali dominano tutto, proiettandoci nella vicenda come se fosse vera, senza musiche complicate a ricordarci che non sta accadendo per davvero. Dico solo, perché rientra nel mio campo, che la realtà non ha musiche di accompagnamento, quindi perché l’imitazione della realtà, la narrativa, per somigliarle dovrebbe sentirsi in obbligo di averne? Vi rimando a questo articolo per approfondire.
Parleremo solo di questioni narrative.
Dunkirk, non è difficile notarlo, non ha delle “storie vere e proprie”, basate su un arco del personaggio. Non sono nemmeno storie davvero complete, ma solo uno sprazzo nella vita di tre gruppi di personaggi durante i giorni della ritirata inglese, anche se è possibile delineare perlomeno un inizio, uno svolgimento e un “finale”, diciamo, per tutte. Per chi non lo ha visto o non ha letto niente sul film, mi spiego meglio: il film segue tre gruppi di personaggi sul molo (i soldati che tentano di tornare in Inghilterra), in mare (una barca civile che fa rotta verso Dunkerque per aiutare nell’evacuazione) e in cielo (i piloti della RAF che proteggono le navi dai bombardieri nemici).
La durata delle vicende è diversa in base allo scenario, e i diversi eventi sono presentati alternando scene senza badare all’esatto scorrere del tempo: gli eventi sul molo arrivano a durare una settimana, quelli della barca un giorno e quelli dei caccia un’ora. A fine film vediamo la conclusione di tutti e tre, nonostante la durata molto diversa per cui le vicende del pilota d’aereo sono solo una frazione del tempo della vicenda della barca civile, e questa a sua volta è solo una frazione degli eventi dei soldati sulla spiaggia e sul molo.
A me le diverse durate non hanno creato alcun problema, anche se non avevo idea che ci fossero. Però dopo la visione ho letto che diverse persone hanno trovato fastidiosa la violazione della narrazione lineare, cronologica, e questo è normale. Tecnicamente è un punto debole, c’è poco da fare, e si può solo “lottare” per farlo pesare il meno possibile. Anche in sala ho sentito dei commenti, a fine film (seguito direi in religioso silenzio, non ho mai sentito voci, e la sala era abbastanza piena), di alcuni ragazzi che non avevano capito bene gli eventi o avevano capito la differente durata solo al termine della visione.
In realtà la differente durata delle tre storie è “raccontata”, in modo goffo, da alcune scritte iniziali. Quando vediamo le prime tre scene, troviamo impresso per alcuni secondi il titolo (es. Il mare) con sotto per sottotitolo un’indicazione temporale (es. un giorno). Il problema è che senza sapere cosa significhino queste scritte, diventano addirittura una distrazione: se uno legge “un giorno” non pensa “la durata dell’evento sarà un giorno”, ma “perché rimani sul vago e non dici quale giorno?”. Stesso discorso leggendo “un’ora”.
Queste scritte delle durate arrivano, a peggiorare la situazione, dopo le scritte iniziali. Altro “raccontato” fortemente deprecato nel cinema: mentre vediamo un gruppo di soldati avanzare in una cittadina deserta, stanchi, demoralizzati, e li vediamo cadere preda del fuoco dei tedeschi nascosti chissà dove, non ha alcuna utilità fermare il film ogni pochi secondi per mostrarci una schermata nera in cui un po’ alla volta si formano le scritte che ci dicono che sono soldati in fuga e che ci vorrà un miracolo per salvarsi. “Raccontato” inutile completamente, senza nemmeno quel minimo di utilità delle scritte introduttive di certi film storici, perché la scena con cui va a interferire è ben più chiara delle scritte stesse!
Parliamo dell’assenza di una storia vera e propria nelle tre vicende. I personaggi ci appaiono perfettamente formati, già in grado di arrivare a fine vicenda. Il soldato protagonista delle vicende sulla spiaggia grazie al proprio approccio molto determinato riesce dove altri accanto a lui, ugualmente attivi e aggrappati alla vita, muoiono: lui ha le doti per farcela, ma capiamo che la fortuna è altrettanto o più importante dell’iniziativa personale. D’altronde buona parte delle forze inglesi alla fine si salvano, no?
Ancora più marcata la questione con l’anziano che guida la barca e con il pilota della RAF: entrambi si mostrano professionisti altamente qualificati, e compiono fino in fondo la propria missione seppur con un finale molto diverso (ma non faccio spoiler a riguardo) legato al solo caso.
"Bene: i dati dicono che sono perfettamente in grado di vincere senza alcun cambiamento interiore, quindi sopravviveremo.”
All’epoca Apollo 13 fu un successo, proprio come è stato Dunkirk adesso, ma fu un successo di breve durata e cadde poi nel dimenticatoio. Il motivo è quello individuato già da alcuni recensori all’epoca: la mancanza di un forte impianto emotivo, di un’esperienza interiore che trasformi il protagonista. Il comandante già a inizio film è perfettamente in grado di cavarsela, il suo viaggio verso la Luna non comporta alcun cambiamento interiore. Non possiamo rispecchiarci nella sua vicenda e vederci le nostre vite, e il nostro stesso bisogno di cambiare: vediamo solo che se uno è coraggioso e abilissimo, vince…
Questo esempio mi è rimasto impresso, perché Dara Marks lo discute con grande efficacia all’inizio del saggio L’arco di Trasformazione del Personaggio. Appena è terminata la visione di Dunkirk, mi è subito saltato in mente.
L’assenza di archi narrativi nelle tre vicende che permettano di risuonare con le nostre esperienze, dandoci qualcosa che vada oltre i meri eventi, può penalizzare fortemente l’opera in futuro. Non dico che verrà messa da parte come Apollo 13, di cui molti non ricordano nemmeno il nome del comandante (Jim Lovell), un eroe vero, mentre più o meno tutti si ricordano quello di un eroe inventato, ma con un forte viaggio interiore, come Luke Skywalker, però può succedere.
A parte questo problema Dunkirk ha fatto un gran lavoro visivo e ho letto paragoni con Mad Max: Fury Road, altro film la cui trama ha dalle fortissime carenze narrative (e soprattutto ha dei contenuti abbastanza stupidi, a differenza di Dunkirk) che a molti non è piaciuto proprio per questo. Tra parentesi, Mad Max: Fury Road a me è piaciuto più di Dunkirk e l’ho rivisto volentieri una volta.
Se la storia è infestata dalle idiozie che distraggono e buttano fuori dalla vicenda perché ne mostrano la natura fasulla, priva di credibilità, per chi cerca un film “vero e proprio”, “completo”, conta poco la grande bellezza visiva se c’è carenza del resto…
… anzi, è un aggravante non aver speso qualche spicciolo per una storia ben fatta dopo aver investito barche di soldi per fare inseguimenti ed esplosioni senza computer grafica! Significa proprio che al regista non gliene fregava nulla di lavorare davvero bene e si accontenta di fare le cose a metà (ma noi il biglietto lo paghiamo intero, non dimezzato). Dunkirk almeno ha evitato (in parte) questo problema di Mad Max: Fury Road.
Il cinema è un media visivo e sonoro, ma rimane sempre narrativa, quindi ci si aspetta che sviluppi bene tutti gli aspetti dell’esperienza: solo gli animi ingenui si stupiscono dei film dalla grafica stupenda che dopo il successo iniziale poi cadono nel dimenticatoio, mentre film o serie televisive con immagini e sonoro solo “buoni” (non eccelsi), ma storie davvero ricche e incisive, conquistano il pubblico e rimangono per decenni nel cuore della gente.
Dimenticarsi che la narrativa tramite audio e immagini sia sempre narrativa, è il marchio del dilettante. E Nolan non lo è, e proprio per questo possiamo lodare il modo con cui affronta il problema: mentre troppa gente che parla di film senza conoscere la teoria proietta la propria stupidità sugli altri credendo che i registi siano altrettanto ignoranti di loro. Non pensate che Miller non sapesse, in tutto o in parte, che rischi ha corso con Mad Max: Fury Road, o che non lo sapesse Nolan con questo film.
In più, come accennavamo, Dunkirk ha ricordato al cinema che la musica non è sempre obbligatoria e che altri suoni più reali possono agire anche meglio per costruire il nostro responso emozionale, la nostra ansia per il tempo che scorre e la tragedia imminente se un “miracolo” non salverà gli inglesi, per cui un piccolo posto nella storia del cinema se lo è scavato anche solo così.
Però, come detto all’inizio, non mi sento in grado di parlare di queste cose per cui evito, a differenza della massa dei commentatori di film che parlano di cose che apertamente non conoscono, e mi concentro sul mio campo tecnico…
Film visivamente fantastico, ma si possono trovare facilmente molte critiche alla storia anche da parte di chi ha adorato l’esperienza visiva e sonora. Chi si dimentica che la narrativa cinematografica è narrativa, sbatte gli occhioni vacui senza capire o essere in grado di spiegarsi che qualcuno possa non apprezzarlo e accusa gli altri di non capire nulla di cinema. Chi invece tiene conto di tutto e applica la teoria nota, e non solo ciò che gli piace considerare in un film, non ha problemi a spiegarsi sia le critiche che i pregi del film.
Proprio nel gestire questo problema, l’assenza di forti archi narrativi per rendere più “reale” e meno “film” la vicenda, Nolan ha dato il meglio. Appena ho visto che il film seguiva tre gruppi di personaggi, nei primi minuti di visione, ho tirato un sospiro di sollievo: a livello tecnico era evidente cosa aveva scelto di fare per risolvere il problema del troppo realismo a scapito della finzione narrativa.
Avendo deciso di non voler creare storie col modello classico, basate su personaggi che superano o falliscono nel superare un difetto interiore, Nolan ha adottato una soluzione semplice ed elegante per ridurre al minimo i problemi: ha scritto tre storie brevi invece di una lunga. In pratica invece di scegliere di sbagliare apertamente, ha scelto di evitare in buona parte il problema per poter fare ciò che voleva senza causare un errore completo.
Ricordate come mai le storie hanno bisogno di una struttura? Per tenerci incollati lungo la durata della vicenda. La lunghezza di un film o romanzo ci richiede, se possibile, una storia solida che ci mantenga lì fino alla fine. Una storia corta, invece, può terminare prima che il nostro interessi si riduca e basare tutta la propria forza su un’idea di fondo. È la classica questione dei racconti che devono reggersi su una idea o una situazione, mentre i romanzi su solide strutture narrative. Un racconto dilatato in un romanzo, senza una ristrutturazione completa, non funzionerà.
Cosa ha fatto allora Nolan? Dovendo fare un film “realistico” fino al punto di rifiutare il modello restaurativo classico, un film che è più documentaristico che narrativo nel suo volerci mostrare la realtà fisica dell’evacuazione, pur con tutte le licenze che si è preso per renderla meno caotica e meno hollywoodiana, invece di raccontarci una sola vicenda di 106 minuti ne ha raccontate tre. E all’improvviso non hai più una sola vicenda di 106 minuti, ma hai tre entità separate di poco più di 30 minuti l’una e che collettivamente costruiscono una macro-vicenda corale di 106 minuti.
Facendo un paragone con la narrativa, dalle mie stime, un film da 90-120 minuti equivale a un romanzo senza riassunti, nello stile di Vaporteppa, di 40.000-60.000 parole, quindi un romanzo non molto lungo. Tanti romanzi che leggiamo vanno oltre le 90.000 parole, senza contare i mattoni di 200-300.000, e hanno diverse parti riassunte che bisognerebbe estendere in un film per mostrarle oppure tagliarle del tutto. Avere, mettiamo, 30-35 minuti per storia equivale ad avere circa 16.000-17.000 parole di sole scene vivide e immersive. Un racconto molto lungo, al limite col romanzo breve.
Una struttura narrativa classica non ci sta in così poco spazio. Alieni Coprofagi dallo Spazio Profondo con 28.900 parole ha faticato a sviluppare tutto l’arco correttamente, e un paio di migliaia di parole in più per mostrare la vita di Nunzio in cella avrebbero aiutato notevolmente l’opera. Con 16.000-17.000 parole ci fai le opere più brevi di Carlton Mellick III, come Il Ninja Morbosamente Obeso o Puttana da Guerra, che si reggono solo sull’idea di fondo e non brillano certo per struttura narrativa.
Una storia di obesità e castigo: leggilo subito!
Il vantaggio però è che una storia così breve la finisci prima che il problema si faccia grave per l’esperienza di lettura, o di visione. L’assenza di una struttura ricca di significato non pregiudica il completamento dell’esperienza, danneggia solo il risultato dell’esperienza stessa perché in assenza del plusvalore dato dalla struttura rimangono solo i fatti nudi privi di un significato ulteriore. Qui un racconto di fantascienza si salva con l’idea meravigliosa, che ci fa dire “cavolo, che forza!”, mentre una storia basata su fatti reali avrà dalla sua il realismo puntiglioso, che ci farà dire “cavolo, ma è stato davvero così, vivere quell’evento era proprio così.”
Dunkirk costruisce l’esperienza dell’attesa per imbarcarsi e dei pericoli per tornare la casa. L’esperienza di combattere su uno Spitfire britannico. L’esperienza di cosa deve aver significato per i tanti proprietari di piccole imbarcazioni andare a salvare il proprio esercito in pericolo. Sfortunatamente non ho visto dettagli così entusiasmanti, così vividi e sorprendenti da farmi dire “devo rivederlo per imprimermi meglio quella cosa”, ma solo quanto bastava a farmi pensare “sì, suona credibile, suona come gli eventi veri” (escluso il numero minore di esplosioni e i pochi aerei, ma anche se ho notato subito l’errore non mi ha dato alcun fastidio reale, come non mi ha dato fastidio l’assenza assurda di sigarette). Se questo genere di cose ti acchiappano, sei a cavallo… altrimenti ti farà schifo.
I personaggi mancano di una costruzione solida dell’empatia: sono i “buoni” solo perché non fanno cose brutte e sono inglesi, mentre gli altri sono nazisti e quindi cattivi perché sì nella logica del film, fine.
I personaggi mancano di solide motivazioni e solidi obiettivi, nessuno di loro sta lottando per realizzare un sogno o simili, ma solo per sopravvivere agli eventi, mentre il tempo scorre e la fine dell’esercito inglese sembra imminente:
Sono molto diversi da Michael Corleone o da Luke Skywalker, insomma. Sembrano persone per bene come tante in una guerra di massa che li travolge, non sono singoli individui che guidano il proprio destino in una vicenda che è del tutto personale e che ha solo per sfondo la guerra.
Nolan ha fatto un ottimo lavoro con ciò che poteva fare nonostante tutti gli handicap che aveva scelto. Il film risultante rimarrà nella memoria e verrà discusso con entusiasmo come ancora tanti discutono e ricordano Il Padrino o Pulp Fiction? Probabilmente no. Probabilmente il film verrà ricordato per i suoi meriti nell’uso del suono e di un modo molto documentaristico e volutamente più asettico, più psicologico e meno “boom boom sangue urla budella”, di rappresentare la guerra.
Mi piacerebbe vedere più film così, o magari a metà tra questo approccio e quello classico di Hollywood per non farcirsi di troppi handicap. Magari lavorando un po’ di più sull’empatia e sugli obiettivi personali, per rendere meno “anonimi” i protagonisti. Più simili a Stalingrad del 1993, per esempio, o a Band of Brothers.
Il pericolo Apollo 13 è lì in attesa, ma a parte questo ancora complimenti a Nolan: meglio un film così che l’ennesima porcata a base di soldati dalle doti incredibili che fanno stragi incredibili e vincono perché la rule of cool domina e il realismo vale zero. ^__^
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